Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione, la n.21972 del 28 ottobre 2015, scaturisce a seguito di un ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, riguardante l’impugnazione da parte di un Contribuente di un avviso di accertamento IVA, IRPEF ed IRAP, dovute – secondo il Fisco – nell’anno 2001.
L’accertamento è collegato ad un’attività professionale di consulenze per una serie di compensi non registrati e non fatturati. Il Contribuente presenta ricorso alla Commissione Tributaria che lo accoglie e per contro, l’Agenzia delle Entrate, ricorre in Cassazione .
L’oggetto del contendere sarebbero la mancata emissione di oltre 70 fatture da parte del Professionista che avrebbe svolto la sua prestazione gratuitamente, trattandosi di amici e parenti.
Il Fisco però emetteva un avviso di accertamento reclamando il pagamento di sanzioni, imposte e interessi, contestando la “presunta” gratuità, ritenuta da quest’ultimo, impossibile. Tra l’altro, la maggior parte dei “clienti” faceva parte di Società, assistita e curata dal Professionista che già percepiva e fatturava per la prestazione alla stessa. Ad ogni modo, anche nel grado supremo della Cassazione, vengono riconosciute le ragioni del Professionista, considerato che l’oggetto della prestazione contestata, ossia il semplice invio telematico delle dichiarazioni dei redditi era finalizzato all’incremento della propria clientela. La Suprema Corte infatti ha recepito interamente il concetto espresso in sede di Commissione Tributaria, ritenendo con motivazione congrua e non contraddittoria, plausibile , a fronte delle mere supposizioni dell’Ufficio Erariale, la gratuità dell’opera svolta dal Professionista, in considerazione dei rapporti di parentela e di amicizia con gli stessi clienti, ma soprattutto, la semplicità della prestazione in sé, rende verosimile l’assunto del Contribuente, circa la gratuità.
Concludendo: il Fisco non può inventare redditi che non esistono ed il Professionista può lavorare gratis per parenti e amici.