Chiunque, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione,
è punito [c.p. 598] con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico , la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
Questo l'articolo 595 del Codice Penale sulla diffamazione. I fatti: Un pubblico amministratore, attaccato su facebook, si era ritenuto offeso pubblicamente e per questo si era rivolto all'Autorità Giudiziaria. Sia in primo che in secondo grado, veniva condannata la controparte, in quanto il profilo risultava collegato al suo nome e cognome. A questo punto, la signora intestataria del profilo, presenta tramite legale, ricorso in Cassazione. Il ricorso è basato sulla motivazione che sia in primo che in secondo grado, i Giudici avevano attribuito la paternità dei messaggi denigratori o diffamatori, basandosi soltanto sull'associazione del profilo al suo nome e cognome. Ad onor del vero, all'epoca dei fatti, la signora in questione svolgeva attività sindacale e le offese o presunte tali erano riportate su un forum pubblico su questioni che riguardavano i lavoratori dell'ente pubblico. Nel ricorso presentato è stata evidenziata l'omessa verifica dell'indirizzo IP di provenienza dei messaggi, oltre che del log, ossia la registrazione sequenziale e cronologica delle operazioni effettuate, da un utente, un amministratore o automatizzate, man mano che vengono eseguite dal sistema o applicazione. E se poi, dalle indagini si evidenzia che l'indirizzo IP associato ai messaggi denigratori o diffamatori, risulta intestato al profilo Facebook di un altro sindacalista, sulla cui pagina scrivevano numerosi utenti, la Cassazione, nel prenderne atto, non ha potuto far altro che accogliere il ricorso e quanto evidenziato dalla Difesa, evidenziando il principio secondo il quale non esiste diffamazione su facebook, in assenza di un accertamento dell'indirizzo IP da cui proviene il messaggio che offende la reputazione. - Cassazione, V sezione penale, sentenza n. 5352/2018.